LA VOCE DELLE FIGLIE DEL TIBET

TASHI DELEK
rifugiata tibetana

Vorrei rappresentare la voce, finalmente libera, di tante figlie del Tibet che non hanno più un nome né un volto. Di tante donne private del proprio futuro. Vorrei essere oggi qui la loro voce, per raccontare la reale storia della crudele oppressione militare che le ha rese vittime tra le vittime, proprio in quanto donne, colpite in tutti gli aspetti dalla dura repressione politica e del genocidio in atto nel territorio tibetano. Vorrei essere la voce di tutte le donne tibetane, sia laiche che monache, detenute e torturate semplicemente per aver espresso un’opinione o per aver osato cantare l’indipendenza del Tibet, o ancora per non aver obbedito al comando di alzarsi in piedi impartito da qualche cinese. Molte donne sono in stato di detenzione solo per aver indossato vesti tibetane, per aver rifiutato l’indottrinamento politico, o per aver manifestato fedeltà al Dalai Lama.
Molto spesso anche solo per aver cercato semplicemente di essere madri.
Le mani dei cinesi sulle donne tibetane sono pesanti, violente, fastidiosamente sadiche. L’arresto, specialmente delle monache, si traduce in stupri e violenze collettive, praticate spesso con micidiali bastoni elettrici e bruciature di ogni tipo. Le detenute vengono obbligate a spogliarsi davanti a tutti, picchiate, o assalite da cani feroci e così via in un crescendo di orribili perversioni che hanno, come unico scopo, quello di umiliare e distruggere sia la dignità che il senso di appartenenza a un popolo, quello stesso popolo che per i cinesi non ha alcun diritto di esistere.
Ma le donne tibetane resistono, non si piegano. Totalmente isolate, in quell’enorme carcere collettivo che è divenuto il Tibet, resistono, spesso eroicamente, incuranti delle conseguenze che ogni parola ed ogni gesto può avere sul loro già amaro destino. Anzi spesso sono proprio loro, quelle timide e pacifiche monache di 15, 16, 20 anni che a voi capita di veder gaiamente sorridere nelle vostre riviste, le leader che da anni guidano il movimento di resistenza non violenta praticata sia fuori che dentro le carceri.
Esse sfidano i loro aguzzini in nome dei loro diritti, della libertà, li sfidano, proprio come farebbe un docile agnello di fronte ad un lupo affamato.
Vorrei il permesso di recitare un brevissimo canto che dice: “Io sono in prigione, ma non ho rimpianti. La mia terra non è stata venduta, è stata rubata… Per questo abbiamo pianto tante lacrime, oh, tante lacrime”. Sappiate che questo breve e inoffensivo ritornello, circolato clandestinamente per qualche tempo nella famigerata prigione di Drapchi, è costato fino a 10 anni di pena aggiuntiva alle monache che l’avevano composto.
È in questo modo che il Tibet sta combattendo la sua lotta per la libertà. Non con le bombe, gli attentati, le armi, ma con la fede, i canti, le bandiere fatte sventolare dalle colline prima dell’arresto e soprattutto in nome della grande devozione al suo Leader, il Dalai Lama, Premio Nobel per la Pace.
La Cina, che alcuni decenni fa dichiarò al mondo la liberazione di un Tibet feudale, dall’oppressione di imperialisti stranieri, ora non ha più scuse per le sue menzogne. Vi chiedo: gli schiavi liberati che motivo avrebbero di ribellarsi a chi gli avesse davvero offerto benessere e libertà?
Le donne tibetane vivono rinchiuse nelle prigioni senza sapere se ne usciranno mai, cercano di sopravvivere gloriosamente restando per lunghi periodi segregate in luridi buchi, senza acqua né luce e con pochissimo cibo, spesso avariato. Non hanno nulla per potersi scaldare e vanno avanti così, per lunghi periodi di isolamento, in celle completamente buie, vengono seviziate e picchiate senza pietà anche fino a morirne, costrette a rispondere ai loro carcerieri quando le insultano chiamandole con nomi come asino, maiale, cane…
Ed è così che vivono la loro prigionia: sole, nude e indifese di fronte ai loro torturatori. Le donne tibetane sono private del diritto di essere madri, vengono sterilizzate a loro insaputa oppure con la forza, spesso sono costrette ad abortire e a subire trattamenti peggiori di quelli riservati alle bestie, senza anestesia, con l’utilizzo di bastoni elettrici. E non importa se il feto è un bambino già completamente formato.
Inoltre, se nonostante l’iniezione letale il bambino fuoriesce vivo, viene soppresso subito dopo, e spesso mentre la madre ascolta il suo primo innocente vagito. Dopo un po’ le comunicano che è morto. L’aborto e la sterilizzazione forzata sono problemi veramente seri sia per la gravità che per la frequenza. Le rigide misure di controllo delle nascite sono applicate in diverse zone del Tibet a tutte le donne in età compresa tra i 16 e i 45 anni.
Il destino di una mamma in Tibet è completamente nelle mani del Governo centrale e di quello regionale. Quello centrale decide il tasso annuo consentito di crescita globale, quello regionale le nascite ammesse localmente e le donne che possono averne diritto.
Spesso il destino è legato a una lotteria. Non è uno scherzo: una coppia che vuole un bambino, sempre ammesso che sia stato loro accordato il diritto di contrarre matrimonio, deve tentare la sorte affidandosi a un sorteggio comunale. Se è fortunata potrà avere il figlio. Se va male dovrà perdere anche quello che eventualmente porta in grembo e poi attendere altri tre anni per avere un’altra occasione.
Ecco come vivono ora le donne “liberate dalla schiavitù” grazie ai Cinesi.
Sotto la dominazione cinese, quelle che prima potevano essere considerate come le donne più emancipate dell’Asia, si trovano al livello più infimo della scala sociale. Di fatto, non hanno accesso all’istruzione, né a cure mediche o a qualsiasi tipo di attività professionale. Ora si che possono considerarsi davvero schiave tra gli schiavi… E gli schiavisti sono proprio quelli che ebbero il coraggio di dire al mondo di averci liberati.
Ma chi ci libererà ora da questa vera schiavitù? Chi avrà il coraggio ora di affrontare questa tanto potente quanto dispotica Cina? Quale sarà il nostro destino? Dovremo estinguerci silenziosamente? Lasciare che il genocidio si compia restando a guardare in religioso silenzio?
Aiutateci!
L’unica cosa che vi chiediamo è aiutare un popolo innocente ignobilmente calpestato nella propria dignità.
Potete contribuire semplicemente diffondendo la verità, portandola ad amici e parenti.
Aiutateci a far conoscere a tutti la vera, dolorosa storia, vissuta dal popolo tibetano
Una realtà che ora ha anche un nome: la causa tibetana…
Noi crediamo nell’umanità e pensiamo che nessuno può tacere o far finta di niente di fronte ad ingiustizie così evidenti, ogni tibetano attende pazientemente e rispettosamente anche il vostro aiuto! Aiutare un popolo a sopravvivere è un dovere di tutti, perché vivere è un diritto di tutti!

Figlie del Tibet, ho portato la vostra voce al di là dell’Himalaya perché arrivi alle orecchie di tutti gli esseri umani che credono nell’uomo e nell’umanità.