La Battaglia di El Alamein

Il deserto non è mai come te lo immagini. È una distesa infinita di sabbia, di dune e costoni solitari, che affascinano e intimoriscono. Che tutto inghiottono e poco restituiscono. Così è anche quello di El Alamein, che parla solo a chi si sa fermare. “Viandante, arrestati e riverisci” – recitano le parole scritte da Alberto Bechi Luserna ne I ragazzi della Folgore(Edizioni Libreria Militare) e che oggi decorano il Sacrario italiano – “Dio degli eserciti, accogli gli spiriti di questi ragazzi in quell’angolo del cielo che riserbi ai martiri e agli eroi”.
In questa fetta di terra in Africa settentrionale, la Folgore ebbe il suo battesimo del fuoco. Fu mandata lì quasi per errore. La Divisione era stata infatti addestrata per calare su Malta e conquistarla, ma all’ultimo momento i piani saltarono. Ed è forse in questo cambiamento repentino che bisogna cercare una delle peculiarità della Folgore:la capacità di adattarsi. “I paracadutisti – ci spiega il colonnello Cristiano Maria Dechigi, vicecomandante della Brigata – vengono inviati ad El Alamein perché gli Stati maggiori italiano e tedesco decidono di occupare la Tunisia, che era francese, e chiamano questa operazione C4. L’occupazione doveva avvenire nell’estate del 1942 perché Italia e Germania si erano accorte che tutti i rifornimenti inglesi costeggiavano l’Africa e non venivano mai fermati. C’era un flusso continuo di rifornimento e l’unica soluzione era quella di occupare la Tunisia. Tra il 12 e il 15 luglio, la divisione paracadutisti, che si trovava in Puglia per finire l’addestramento ed essere finalmente mandata a Malta, viene spedita in Africa”

Il primo battaglione ad arrivare in terra africana è quello di Bechi Luserna. E lo fa senza portare con sé nulla. I suoi soldati non hanno coperte né cucine. Solo armi e una gran voglia di far la propria parte. Credono di andare a conquistare la Tunisia, ma all’improvviso Rommel cambia idea e così i ragazzi della Folgore, come verranno presto ribattezzati, vengono spediti in prima linea dove capiscono che la guerra non è proprio come se l’erano immaginata: “Questi reparti arrivarono in Africa per fare un altro mestiere e si trovarono a combattere contro i carri armati senza avere nulla – prosegue il colonnello Dechigi – I ragazzi della Folgore faranno del loro meglio in qualsiasi luogo si verranno a trovare. Ci sono i carri armati? Li attacchiamo con quello che abbiamo. Dobbiamo fare delle bombe usando solamente bottiglie piene di benzina e sabbia? Non c’è problema. Quei soldati si adattarono a tutto. C’è stato anche chi è salito sulle torrette dei carri armati per provare a scardinare le porte con un piccone. C’era, in quei ragazzi, la volontà di lasciare un segno”.
E lo fecero. Il caso forse più eclatante è quello di Guido Visconti di Modroneche, qualche giorno prima di morire, confidò: “Io vorrei avere il tempo, prima di cadere, di gridare: ‘Viva il re’. Sapete: come in quelle belle stampe del ’48, un po’ ingiallite, raffiguranti episodi delle guerre di indipendenza: ‘Il luogotenente di S. Martino dà di sprone contro un drappello di ussari e cade al grido di: ‘Viva Savoia’”. Così fu. Gli inglesi iniziano a bombardare. I boati, poi un urlo: “Viva il Re!”. Guido aveva mantenuto la parola. Con le ultime forze che aveva in corpo, disse: “Un Visconti non schiva il piombo dei Windsor”.
In questo fatto c’è l’essenza del battaglione, come ci spiega il colonnello Dechigi: “C’erano moltissimi ufficiali e soldati semplici che provenivano dalla cavalleria e volontari che provenivano da tutte le armi, portando in questi reparti le caratteristiche dell’arma di appartenenza, fondendole in un insieme unico. Verso la battaglia c’era un atteggiamento distaccato e quasi ottocentesco. Ma c’è anche una cosa terribile nell’affermazione ‘un Visconti non schiva il piombo dei Windsor’: quella fu una guerra tra europei”.
La Folgore vinse nella sconfitta: “Il modo in cui svanì sul campo di battaglia fu unico”, prosegue il colonnello “Al termine di un tentativo di ripiegamento fatto a piedi, combattendo e mantenendo comunque la posizione, questo reparto, quasi distaccato da ciò che gli accadeva intorno, si radunò, si schierò, sotto gli inglesi che guardavano, distrusse le armi e, dopo aver reso gli onori al proprio comandante, aspettò che i soldati britannici venissero avanti per catturarli”.
La Divisione – o, meglio, ciò che di essa rimaneva – non si arrese. Decise di fermarsi perché non c’era più nulla con cui combattere. A un certo punto, infatti, il colonnello Camosso, che in quel momento comandava il 187esimo reggimento, decise che era stato fatto tutto il possibile. Che l’onore era salvo. “Quelle sono le qualità a cui ancora oggi ci riferiamo e a cui non vogliamo essere da meno”, commenta il colonnello Dechigi. “Il paracadutista organizza e pianifica fin nei minimi dettagli. Si prepara lo zaino, mette dentro le cose nell’ordine in cui le userà con maggior frequenza, in modo tale da esser sicuro di poterle usare di giorno e di notte. Dopo di che, per via di un malfunzionamento, lo zaino va perduto. Ma non è che allora non si fa più niente: fa con quello che ha. E questa è la caratteristica dei paracadutisti che andarono in Africa e probabilmente è lì che si è sviluppata”.
In cinque mesi la Folgore si fece conoscere. Lasciò centinaia di “ragazzi” a terra, che morirono solamente dopo aver fatto il possibile. A prendersi cura di quei corpi inghiottiti dal deserto fu Paolo Caccia Dominioni, una specie di “monaco-combattente” del Medioevo. “Non era un paracadutista – racconta Dechigi – ma con il suo battaglione venne assegnato, subito prima dell’inizio della battaglia, al settore della Folgore per stendere campi minati. Stette tutto il periodo della battaglia al fianco della Divisione”.

Forse, l’insegnamento più grande di quei ragazzi fu, come scrisse Alberto Bechi Luserna, che “il vero eroismo non è quello che si concentra in un atto di durata

limitatissima se pure intensamente vissuta, come un lancio. Non esiste l”essenza’, l”estratto’ dell’ardimento. Il vero eroismo è diluito nel tempo; è macerazione, è tormento, è logorio”. Un insegnamento valido ancora oggi.